LA NOSTRA STORIA … oppure TUTTO EBBE INIZIO…
Dopo la laurea, nel 2011, ho deciso di “appendere la mazza al chiodo” e di fare il Servizio Civile Internazionale. Ho fatto domanda all’ong italiana CO.P.E. e dopo pochi mesi son partita per la Tanzania, dove ho lavorato per 12 mesi in un villaggio nel Sud del paese collaborando in progetti di sviluppo nell’ambito dell’educazione e del women empowerment.
Ed è stato proprio alla fine di questa esperienza, che per caso mi sono imbattuta nell’hockey qui in Tanzania. Un giorno passando con il “daladala” su una strada di Dar es Salaam, ho visto che stavano giocando a hockey su un campo sterrato e, incredula, son scesa al volo e mi sono avvicinata al campo…
Ho conosciuto così Mnonda Magani, l’allenatore della squadra maschile di Dar Es Salaam, e i suoi ragazzi. Ho fatto allenamento con loro, una partitella … e dopo di che ci siamo salutati perché ero in partenza per tornare a casa dopo il mio anno di esperienza in Tanzania. Però siamo rimasti in contatto con i ragazzi e Mnonda, che mi raccontavano come andavano le partite e la situazione dell’hockey in Tanzania, la mancanza di soldi, materiale e infrastrutture per sviluppare e diffondere questo sport. Dopo un anno, a gennaio 2013, sono ritornata in Tanzania e a lavorare a Dar es Salaam, sempre per il CO.P.E. Questa volta ho portato con me un pò di mazze e altra attrezzatura usata, grazie al contributo delle mie compagne di squadra della Lorenzoni di Bra. Con quel materiale abbiamo iniziato a fare allenamento ai ragazzini di una scuola secondaria vicino al campo, e piano piano siamo arrivati a una decina in poco più di due mesi!
Nel frattempo ho iniziato ad allenarmi con la squadra di maschi di Dar es Salaam, non sapendo che c’era una squadra femminile. L’ho saputo un giorno che al campo, parlando con Mnonda, mi ha raccontato un po’ la storia dell’hockey in Tanzania. “La squadra c’era prima, ma da qualche anno non è più attiva perché non ci sono altre squadre femminili con cui giocare in Tanzania e la Federazione Tanzaniana non ha abbastanza soldi per organizzare attività nelle scuole o per pagare le trasferte per andare a giocare in altri paesi limitrofi o per organizzare tornei qui. Le ragazze che facevano parte di quella squadra hanno così abbandonato così abbiamo abbandonato l’hockey, non vedendo nessuna speranza di continuare a giocare, chi si è sposata e ha messo su famiglia, chi ha iniziato a lavorare o chi si è trasferita altrove. La squadra si è totalmente dispersa e nessuno ha più cercato di rimettere in piedi l’hockey femminile.” L’idea è uscita spontanea, perché non ci provare a rimettere di nuovo in piedi la squadra femminile? Richiamando le vecchie giocatrici e cercandone alcune nuove! Quel giorno, assieme a Magan c’era anche Alice, una ragazza kenyota giocatrice di hockey che lavora a Dar da anni e con anche lei la voglia di vedere nascere una squadra femminile. Tutti e tre abbiamo condiviso da quella discussione all’ombra dell’albero di mango a bordo campo, un sogno.
L’albero di mango, il nostro ufficio/spogliatoio…
Già lo stesso giorno, abbiamo cercato di ricostruire le fila e capire come fare. Magan ha scritto su un foglietto i nomi delle giocatrici che si ricordava facevano parte della vecchia squadra. E piano piano abbiamo iniziato a chiamare quelle di cui avevamo i contatti. Prima Magan le ha chiamate, e poi io. Primo perché non mi conoscevano, secondo perché non si fidavano più di promesse non mantenute, quando ho proposto loro di tornare al campo a giocare, che rimettevamo in piedi la squadra femminile, molte di loro non mi hanno dato credito, e non sono venute. Solo un paio hanno risposto, e hanno iniziato a venire al campo, al mattino alle 6. Abbiamo fatto allenamento in 2 per un paio di settimane, nel frattempo con il passa parola, piano piano abbiamo rintracciato le altre, e molto lentamente hanno iniziato ad arrivare al campo a scaglioni, prima 2, poi 3, 4 etc..
I primi allenamenti, giugno 2013
Era fine maggio 2013. Ancora non avevo ricostruito tutta la squadra, in media agli allenamenti venivano 6-7 giocatrici, e con incostanza. Poi, un giorno, è arrivata una chiamata che non mi aspettavo dal signor Kaushik Doshi, segretario della Federazione Tanzaniana di Hockey. Mi ha spiegato la difficile situazione della federazione e, avendo saputo quello che stavamo cercando di fare con Magan con la squadra femminile, mi ha chiesto se volevo accettare la sfida di ricostruire la squadra, allenarla e di aiutarlo a trovare i soldi per andare a giocare l’Africa Cup of Nation, la più importante manifestazione internazionale in Africa, torneo valido per le Qualificazioni ai Mondiali. La manifestazione si sarebbe giocata a fine settembre a Nairobi. Era fine maggio e io non avevo né una squadra formata, né una minima idea di dove poter trovare tutti quei soldi. A Kaushik ho detto di si, che accettavo la proposta e che ci avrei provato ad allenare e trovare i soldi. Quella sera non ho dormito dall’emozione, già mi immaginavo la squadra alle Olimpiadi! Ahaha Il giorno dopo, mi sono seduta e ho realizzato che era una cosa praticamente impossibile da realizzare. Da una parte tutte le cose riguardanti la squadra tipo… dove trovare le giocatrici? Pianificare gli allenamenti (Io non ho mai allenato, son sempre stata allenata, per cui trovarsi dall’altra parte è stato complicato ma allo stesso tempo divertentissimo)… Guadagnarsi piano piano la fiducia e il rispetto delle ragazze, farle venire al campo, far trovare in loro la motivazione per venire ad allenarsi.
Nel senso, non è che loro stavano li ad aspettare una bianca che arrivasse un giorno per farle giocare, loro erano a casa loro, con la loro vita, e un bel giorno sono arrivata io a rompere le scatole, per cui anche per loro l’impatto della cosa è stato forte, hanno dovuto assimilare e capire quello che stava succedendo. E capire se esserci dentro oppure no. Anche per me ci è voluto un attimo a capire perché lo stavo facendo, che cosa volevo fare, dove volevo arrivare e come agire. Quindi, già solo gestire queste emozioni e questi pensieri non è stato facile. Nel mentre di tutto questo casino, dall’altra parte c’era tutto l’aspetto della ricerca dei fondi che non poteva aspettare e della comunicazione per raccontare la storia, il sogno, l’obiettivo, e il bisogno di soldi per fare tutto questo. Non sapevo letteralmente da dove iniziare, il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato quello di raccontare a tutte le persone che conoscevo la storia, e cercare consigli, suggerimenti, e aiuto economico..ovunque mi venisse in mente.
Ho scritto una proposta di progetto, con tanto di obiettivi e budget, e foto etc…e ne ho stampate un bel po’ di copie, messe nello zaino e girato per giorni sul piki piki (motoretta-taxi…) su e giù per Dar Es Salaam, bussando porte di uffici in grandi aziende, raccontando, chiedendo. Un sacco di telefonate, appuntamenti, moltissimi rimandati per i motivi più disparati. Del tipo ” mi dispiace ma la persona incaricata del marketing oggi non c’è, è in trasferta per lavoro…” Ma come? Ieri l’ho sentito per telefono e mi ha detto di passare oggi … e quindi li già capivo come andava a finire la cosa … Oppure tantissime volte la frase ripetuta “Ci dispiace ma per quest’anno non siamo interessati a sponsorizzare la squadra di hockey, è uno sport che nessuno conosce, è una cosa nuova.” Si, perché il calcio invece è sempre stato lo sport più amato e seguito dalla preistoria … Ma ci sarà ben stato qualcuno che avrà iniziato a investire nel calcio, a renderlo popolare, no? E allora perché non potrebbe essere così anche l’hockey? Che cos’ha di così diverso?? Cioè, ma perché dobbiamo sempre essere noi gli sfigati che nessuno vuole sostenere?
E poi c’è l’aspetto del colore della pelle. Non ci sta nulla da fare, se in Africa hai il colore della pelle bianco, sei sempre e comunque associato ai soldi. Attenzione, non vuole essere né una critica né una barzelletta. Semplicemente è la verità. La prima idea che viene in mente a un tanzaniano (e non credo che sia così solo in Tanzania), quando vede un bianco, è che ha un mare di soldi. Ora, non stiamo discutere qui sulle origini di questo preconcetto, a questo ci pensano i filosofi, antropologi, sociologi o chi per essi. Quello che ho sperimentato sulla mia pelle, bianca, è che se tu in quanto mzungu ti approcci a qualcuno per chiedere soldi per un progetto, la prima reazione è l’incredulità.
Ma come? Aspetta un attimo, qui c’è qualcosa che non va. Di solito sono i bianchi che aiutano i neri, com’è sto fatto? Adesso ci tocca pure aiutare i bianchi? Hum..per cosa poi? Che sport è quello? Mpira wa magongo… Ah, è il golf! No … non è il golf, si gioca con una mazza e una pallina … Ah ok! Il cricket! No … le squadre sono formate da 11 giocatori … come il calcio! E vince chi fa più goal! Queste alcune scenette di quando provi a spiegare che cos’è l’hockey. Comunque, per farla breve, chiedere i soldi per uno sport sconosciuto, essendo bianca, senza molti contatti, è stata un’impresa praticamente impossibile qui in Tanzania. Snervante, e frustrante. Ma anche divertente. Ho capito che man mano che sali di piano in un grattacielo di una compagnia, incontri persone in uffici via via più grandi, che ti rimandano in uffici ancora più grandi, fino quando arrivi all’ultimo piano e ti siedi in una poltrona in pelle più grossa del tuo letto, e inizi a parlare per mezz’ora davanti a una persona che fa finta di ascoltarti interessata mentre controlla ogni due secondi il telefono. E quando hai finito, e ti dicono che ti faranno sapere, beh … già sai come andrà a finire.
Nel frattempo anche grazie alla nascita di questo blog e all’utilizzo di facebook, e all’aiuto di molti amici, alcuni di vecchia data e altri conosciuti durante il cammino, la nostra storia ha iniziato ad avere in Italia e in Europa molta visibilità. Siamo finiti pure sulla Gazzetta dello Sport (leggi qui), sul sito della Federazione Italiana di Hockey, sul sito della Federazione Internazionale di Hockey (link all’articolo). E grazie a questo sono arrivate le prime donazioni, da amici e colleghi, ma anche da persone fino ad allora sconosciute.
E poi è arrivato il sostegno di due ong italiane, TULIME e CO.P.E., che hanno deciso di promuovere il progetto. TULIME è un’ong che lavora in Tanzania portando avanti progetti in diversi campi, agricoltura, educazione e salute, sostenibilità ambientale e diritti umani. Il CO.P.E è l’ong per cui lavoro, che qui in Tanzania ha progetti in vari settori: educazione, women empowerment, agricoltura sostenibile, salute e assistenza all’infanzia.
Infine è arrivato il contributo della PEPSI, il risultato di tutta l’epopea alla ricerca di soldi qui in Tanzania. Grazie all’incontro con Arun, un signore indiano che si occupa del settore marketing alla PEPSI, finalmente qualche contributo è arrivato anche dalla Tanzania. Essendo ex giocatore di hockey anche lui, quando gli ho raccontato la storia e l’obiettivo di andare a Nairobi a giocare l’Africa Cup of Nations, ha accettato di contribuire con un piccolo grant al nostro obiettivo.
Gli allenamenti intanto continuavano. La diffidenza iniziale, da entrambe le parti, piano piano iniziava a scomparire, ma le difficoltà non mancavano: la lingua diversa, la cultura diversa, il colore della pelle diverso, il modo di approcciare le cose in maniera diversa. Insomma, all’inizio è stato uno scontro su tanti aspetti, poi piano piano è arrivato l’incontro, il capirsi, l’accettarsi, il fidarsi l’uno dell’altro e lavorare tutti per uno stesso obiettivo.
Credo che attraverso lo sport si possano trasmettere tante cose, non si tratta solamente di un esercizio fisico. E questo vale soprattutto per le donne, che in questa società sono lasciate molto spesso indietro, oltre il ruolo di madre e moglie, spesso non si va oltre.
Abbiamo intrapreso quest’avventura insieme, “Run to Kenya” e diventato il nostro motto, perchè è una corsa contro il tempo quella che abbiamo intrapreso per rimettere su la squadra e riuscire a trovare i fondi per partecipare alla Coppa d’Africa di Hockey su prato in programma a Nairobi a fine settembre 2013, senza pretesa di vincere poichè il livello della competizione era davvero troppo alto per le nostre possibilità, ma per dire “anche noi ci siamo”, per realizzare un sogno.
Ce l’avevamo fatta, a Narobi ci eravamo arrivate, purtroppo proprio durante i giorni dell’attentato terroristico al centro commerciale di West Gate che è costato la vita a tante persone. Il torneo, proprio a causa dell’attentato, era stato posticipato e siamo quindi tornate a casa a Dar es Salaam.
Sembrava la fine del sogno, ma non è stato così, abbiamo trovato le risorse per tornarci a Nairobi, e alla fine, dal 18 al 24 Novembre, la Tanzania ha preso parte per la prima volta nella sua storia alla Coppa d’Africa di Hockey su prato.